L'Opera - Speciale Rossini Opera Festival 2019

Un buffo rossiniano e la sua casa

di Alessandro Mormile

Ci sono cantanti capaci, per temperamento e personalità di segnare la storia dell’interpretazione.

Paolo Bordogna è uno di questi. Nel repertorio comico rossiniano e non solo, il basso-baritono milanese è divenuto negli anni punto di riferimento obbligato, creando personaggi capaci di rinnovare l’immagine del “buffo”, liberando i caratteri dai più scontati cliché e calandoli originalmente nella modernità, con riferimenti precisi alla nostra quo- tidianità Ripercorriamo, insieme a lui, le tappe che lo hanno portato ad essere uno dei più apprezzati e fedeli cantanti della gloriosa storia del Rossini Opera Festival.

Ancora una volta al Rossini Opera Festival, che ormai è come la sua seconda casa, questa volta con il ruolo di Gamberotto nel nuovo allestimento de l’equivoco stravagante. Partiamo da qui. Vuole parlarci di questo nuovo ruolo che si aggiunge alla galleria dei tanti personaggi rossiniani da lei fino ad oggi affrontati?

“Sto studiando questo che per me è un nuovo titolo che si va ad aggiungere alla lunga lista dei personaggi rossiniani (19 fino ad oggi al mio attivo). Gamberotto, il mio personaggio ne L’equivoco stravagante, appartiene al catalogo dei classici padri o tutori, tanto perentori nell’imporre la propria volontà quanto poi sconfitti dalla nuova generazione di amorosi, con situazioni e gag molto divertenti. Peraltro, Gamberotto ha tantissimo spazio nell’opera, tre arie, duetti, concertati. La sua seconda aria “Parla, favella e poi...” presenta una scrittura che gioca col modello dell, e arie di furore barocche e impone un controllo tecnico esemplare soprattutto per le agilità di forza e la tessitura impervia. Sono molto felice di poter lavorare col maestro Carlo Rizzi e curioso di vedere come sarà questa nuova produzione con la regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier di cui ho spesso ammirato la capacità di introspezione narrativa. Sarà interessante vedere come tratteranno un testo goliardico come questo, così spinto da valere a quest’opera la censura a sole tre recite dal suo debutto nel 1811 al Teatro del Corso di Bologna”.

Vuole ricordarci quelle che considera le tappe più significative del suo lungo percorso di colla- borazione col ROF?

“Ci sono stati molti momenti di grande soddisfazione professionale: Cenerentola, Matilde di Shabran, La scala di seta. E ciascuna è stata accompagnata da un clima di entusiasmante approfondimento e crescita artistica che solo un Festival come questo può offrire, confezionando spettacoli sempre di alto livello per un pubblico internazionale e contribuendo a esaltare la produzione operistica di Rossini per esportarla nel mondo, come un vero e proprio marchio di fabbrica, di cui sono fiero di far parte da qualche anno”.

Nell’ambito del suo cammino pesarese, vuole parlarci di alcuni incontri con musicisti, registi o con chi altro che l’hanno aiutata a crescere come artista e cantante rossiniano?

“Negli anni tanti sono stati gli incontri significativi. Scegliendo alcuni nomi, il mio pensiero va al suo attuale Sovrintendente e Direttore Artistico, il maestro Ernesto Palacio che per anni è stato anche mio agente e impagabile consigliere, sia per il repertorio che per l’avviamento della mia carriera in ambito internazionale. Fu lui a capire per primo la mia vocazione per il melodramma comico.

Come anche il dottor Gianfranco Mariotti, padre del Festival, che in tanti anni di collaborazione mi ha sostenuto con affetto, riponendo in me una fiducia che spero di aver ricambiato negli anni col mio impegno. Ricordo con grande emozione una cena informale, dopo la Matilde di Shabran, quando mi prese in disparte - chi lo conosce sa quanto sia riservato - e mi disse che ammirava la mia comicità. La definì antica, senza guittonerie e lazzi superflui. Ma quello che mi colpì fu sentirgli dire: “Sei come Charlie Chaplin”.

Preziosissimi poi i numerosi incontri con il maestro Alberto Zedda che iniziarono nel 1998, anno in cui frequentai l’Accademia rossiniana sotto la sua amorevole ed energica guida. Di anno in anno mi ha affidato ruoli sempre più impegnativi, assecondando la mia evoluzione artistica e vocale. Un ricordo personale: era il 2 gennaio 2017, per entrambi il giorno del compleanno. Lo chiamai per fargli gli auguri, parlammo serenamente, la sua voce tradiva un certo affaticamento eppure era pronto ad affrontare altri impegni professionali. Nonostante non fosse mai stata mia abitudine, conclusi la telefonata dicendo che gli volevo bene, rimanendo io per primo sorpreso da quelle parole. Fu la nostra ultima conversazione.

Un episodio divertente che vorrei ricordare riguarda proprio loro due assieme durante le prove di regia di Cenerentola con un altro colosso: Luca Ronconi. Il maestro aveva capito che il mio Don Magnifico andava verso un’impostazione più truce rispetto a come era stato pensato in precedenza per la stessa produzione e voleva aiutarmi a trovare la giusta chiave di lettura. Lasciò il banco di regia - cosa che faceva di rado - e venne verso il palcoscenico e iniziò a farmi degli esempi: “Mi piace che tu dica in faccia a Cenerentola che lei è morta per te, ma subito dopo non devi distogliere lo sguardo: insisti, non cedere!”. A quel punto alzò la voce puntandomi il dito contro e recitando lui stesso il sottotesto che, come terribile patrigno, avrei dovuto interpretare: “Tu non sei niente per me! Non esisti! Sei una merda!”. In quel momento stavano arrivando Zedda e Mariotti, passeggiando l’uno al fianco dell’altro, con incedere lento ma deciso, come due Carabi- nieri in alta uniforme che pattugliano il quartiere, controllando che tutto vada per il meglio. Videro me sul palco, chinato verso la platea e Luca che sembrava inveire contro di me, si guardarono e i loro volti si fecero subito tesi e affrettarono il passo. Alberto, che era sempre stato il più sanguigno si tolse anche il suo golfino di ordinanza dalle spalle, pronto ad affrontare quella che appariva una situazione difficile. Ci volle poco per capire che invece stavamo vivendo un momento creativo che si rivelò per me molto importante e ad oggi uno dei più esaltanti vissuti sul palco. Nei giorni successi ridemmo insieme dell’episodio, Luca mi dava degli schiaffetti benevoli e chiosava con ironia: “Sei brutto e cattivo!”

La sua specializzazione in ambito rossiniano è ben nota. Ma se non ci fosse stato il ROF come si sarebbe evoluto nel corso degli anni il percorso da lei fin qui svolto?

“E chi può dirlo? Sono un fatalista. Avrei in ogni caso seguito la mia vocazione. A volte è capitato di es- sere notato da un direttore artistico mentre interpretavo Dulcamara per venire poi scritturato come Selim. Altre volte addirittura un piccolo ruolo in un teatro meno importante ha aperto strade ben più prestigiose. Non ho mai sottovalutato un’occasione per impegnarmi e dare il massimo su qualsiasi palcoscenico. Aldilà di questo, devo davvero molto al ROF”.

Quale è la visione che ha del suo essere interprete di personaggi “buffi” rossiniani?

“Ammetto di non amare molto l’etichetta di “rossiniano”, si rischia di passare da specializzazione a spe- cialismo e questo non può essere che riduttivo per un artista. Posso dire però che, rispetto ad altri autori, se da un lato la scrittura rossiniana esige rigore tecnico e vocale, dall’altro la sua drammaturgia spesso archeti- pica, ma anche leggera, dai caratteri fantastici consente vasta libertà agli interpreti. Questa particolare dicotomia fa di Rossini un compositore modernissimo, soprattutto nel panorama delle attuali riletture registiche. Per chi ha le armi adatte, questa è una sfida quanto mai accattivante”.

Si sente attratto dalle parti buffe più per ragioni interpretative o per caratteristiche vocali?

“Credo sia più per vocazione scenica. Più di altre consentono un lavoro drammaturgico anche laddove si tratta di maschere classiche del teatro all’antica. Dal punto di vista vocale, ho sempre cercato di perseguire i principi del belcanto anche in ruoli dove apparentemente non era necessario sfoderare peculiarità vocali pregiate, infondendo nobiltà anche ai ruoli più apparentemente semplici e scontati”.

Ricordo il suo travolgente Germano ne la scala di seta messa in scena da Damiano Michieletto alcuni anni fa, in cui il personaggio sembrava una citazione televisiva del domestico filippino Ariel di Zelig. Ci sono altri casi in cui la commedia, il cinema italiano e la televisione hanno in qualche modo influenzato il suo modo di approfondire le “maschere” comiche rossiniane, arricchendole di nuove sfumature?

“Amo il cinema ed è stato spesso fonte d’ispirazione per me. Sono convinto che Vittorio Gassman sarebbe stato un perfetto Dulcamara, Alberto Sordi un impagabile Don Bartolo e Paolo Stoppa un arcigno Don Ma- gnifico. Ma non ho mai ragionato in maniera così immediata sui personaggi. A volte, come nel caso di Germano, le cose sono nate parlando davanti ad un bicchiere di vino alle due del mattino dopo una recita di Gazza Ladra. Dissi a Damiano ciò che mi aveva sempre incuriosito, ossia che sebbene la stessa didascalia rossiniana definisce Germano come servo sciocco, ha una delle arie più belle del repertorio buffo. Si esprime come fosse un tenore ‘amoroso’: frasi lunghe, agilità difficilissime che impegnano sempre due ottave di estensione e richiedono un fraseggio morbido ed elegante. Mi domandavo come potesse un ‘servo sciocco’ trasformarsi per incanto in un Principe sognante. Proposi a Damiano di trovare una soluzione tale per cui do- vessero essere le circostanze a rendere plausibile la narrazione comica, non la banale stupidità attribuita di solito alla maschera di Germano. Così nacque un personaggio dallo spessore umano gigantesco che malgrado questo non sarebbe riuscito a far innamorare Giulia, conquistando però il cuore del pubblico del ROF”.

Il gusto e la pulizia esecutiva hanno negli anni liberato molte parti comiche del genio pesarese da un cliché farsesco che si è rinnovato e, appunto, affinato nello stile, per aprirsi ad una visione più umana e meno rigidamente ancorata alla comicità fine e se stessa. In questo, lei ha fatto scuola. Tutto questo è venuto fuori dalla sua personalità o da un nuovo dettato interpretativo moderno di vedere in questi ruoli qualcosa di più profondo e meno scontato?

Credo in parte di aver già risposto poco fa. Aggiungerò che proprio lo stesso Alberto Zedda, in una nostra conversazione, mi disse che data la mia vocalità, che mi permetteva versatilità nel repertorio, era mio dovere rifulgere il più possibile da un certo specialismo rossiniano, che pur aveva permesso in tempi passati la risco- perta del catalogo del pesarese. Sosteneva (a ragione) che un moderno interprete deve essere eclettico e mai fossilizzarsi sulla specializzazione, arricchire quindi le sue capacità interpretative allargando i propri oriz- zonti musicali. Alberto è sempre stato moderno e aveva la sfrontatezza tipica di chi rischia in prima persona, scommettendo sugli artisti che stima- va e aiutandoli a crescere.

La pensavo esattamente come lui ed ho cercato sempre di rinnovarmi, sperimentando nuovi approcci anche con i personaggi più frequentati”.

Sul piano strettamente vocale, ha ancora senso per lei parlare oggi di “buffo parlante” come lo si in- tendeva una volta?

“Assolutamente no. In primo luogo, amo la bellezza del suono e sebbene in certi casi un suono brutto può es- sere espressivo, credo che sia dovere del cantante vagliare prima tutte le possibilità per essere ugualmente espressivi ma con un suono gradevole. Le orchestre moderne suonano tutte sicuramente meglio - e più forte - che non ai tempi di Rossini. Basta leggere le cronache dell’epoca o qualche lettera dello stesso Gioachino, che esaltava l’orchestra del San Carlo perché all’epoca era costituita da professionisti, mentre si lagnava del- la scarsa qualità di quella del teatro Argentina, che annoverava tra le sue fila esecutori poco più che amatoriali e che durante il giorno svolgevano altre professioni. Allora perché un buffo dovrebbe “parlare” e non cantare bene?”.

In che misura il gesto scenico contribuisce, nelle sue interpretazioni, alla quadratura di un personaggio comico rossiniano?

“Da tempo ho imparato che la ricerca della misura è fondamentale. Quella che ad oggi è la mia presenza scenica è il frutto di un lavoro continuo di limatura e introspezione, evitando il più possibile di riproporre un cliché di me stesso per ogni personaggio”.

Fra le figure rossiniane del repertorio comico fin qui affrontate, alcune delle quali già entrate nella storia della interpretazione rossiniana, quale è quella che le sta più a cuore, o che sente più vicino alla sua personalità?

“Germano, di cui abbiamo parlato prima, è nel mio cuore e lo resterà anche per la scelta inconsueta e co- raggiosa di cantare i recitativi con un accento orientale. Iniziammo per gioco con Damiano e ci rendemmo conto che ciò dava una connotazione ancora più forte e teatrale. Adottai anche un colore di voce più chiaro che serviva a far emergere un lato quasi infantile e indifeso, rendendo le sue azioni ingenue e fonti di quei fraintendimenti necessari allo sviluppo dell’azione comica. Ho portato Germano anche alla Scala e recentemente in Oman, alla Royal Opera House di Muscat. Ogni volta mi è parso di accompagnare per mano un bimbo al primo giorno di scuola e mostrare al pubblico quanto è bello scoprirsi migliori attraverso le sue emozioni.

Una cosa simile si è verificata con Isidoro della Matilde di Shabran. Sostanzialmente un poeta da strapazzo che cerca di sfruttare ogni occasione per avere un tozzo di pane, come un Pulcinella o un Arlecchino. Ma anche in questo caso volevo che emergesse il suo lato più vero, mordente come lo è la fame. Così chiesi alla meravigliosa Ursula Patzak di lasciare i costumi di qualche taglia più grande, senza adattarli a me, al fine di rendere ancora più manifesta la natura dolente del personaggio. Il pantalone era tenuto su da una cintura sfruttata fino all’ultimo foro e la camicia era piena di rattoppi e strappi: il mio Isidoro era magro, stanco e provato. Mi sono sentito subito pronto per raccogliere la disperazione e i morsi della fame atavica di questo povero poeta. L’ho amato molto!”.

Dopo diversi anni di carriera, la sua voce è intatta, anzi sembra essersi arricchita. Fortuna, tecnica o cosa altro?

“La fortuna, ammesso che c’entri qualcosa, può indurre a commettere errori o quanto meno a non fare passi in avanti. Lo studio è l’unica cosa che esorcizza la paura di sbagliare. La tecnica permette di mantenere uno standard nelle performance nonostante le varianti, che vanno dallo stato di salute, all’acustica del luogo, alle posizioni che si assumono per motivazioni sceniche e anche ai cambiamenti del nostro corpo, quindi del nostro strumento. Con la perseveranza nella ricerca della tecnica la voce non solo resta integra, ma si arricchisce dando la possibilità di ampliare il repertorio”.

Tempo fa, in un nostro precedente incontro, mi accennò al lungo lavoro svolto negli anni per acquisire una buona padronanza dei centri e del controllo del legato, necessari per poi lavorare passando dalle diverse tessiture dei personaggi comici via via affrontati. Si sente di affermare che tutto questo sia servito per ma tenere integra la sua vocalità?

“Assolutamente sì! Il centro della voce è la base fondamentale su cui costruire il resto della tessitura, che può essere più o meno avvantaggiata dalla natura propria del cantante. In questo senso il rafforzarsi del centro e delle note gravi ed ancor più l’omogeneità dei registri mi ha consentito di affrontare nuovi ruoli ed ampliare il repertorio, tanto da affrontare ruoli da bass-baritone anche in grandi teatri, dove il volume della voce non deve andare a discapito della bellezza del suono. Spesso sento colleghi entrare in camerino, prima di una recita, ed iniziare i vocalizzi dalle estremità della tessitura e a tutto volume. Io riparto sempre (anche se può apparire noioso) dal centro e con vocalizzi che tendono a “risvegliare” il fiato e a mettere il suono nella giusta posizione, ricercando l’uguaglianza di colore tra le vocali ed esasperando il legato”.

Quali nuove sfide vorrebbe che si aprissero nella parabola del percorso rossiniano fin qui svolto?

“Vorrei quantomeno non si facessero passi indietro. Io cerco, soprattutto nelle mie esibizioni all’estero, di esportare un’idea del Buffo che sia scevra dai soliti cliché, che vedono questi personaggi legati ad una vo- calità incerta e povera, tendente al farsesco. C’è ancora molto lavoro da fare: la maggior parte del Rossini a noi ormai familiare deve ancora essere conosciuto appieno in qualche angolo del mondo ed è necessario esportarlo nel massimo rispetto di questo fertile compositore, talvolta conosciuto ancora oggi solo per il suo prodigioso Barbiere di Siviglia”.

Cosa si sente di dire alle nuove generazioni di cantanti che si affacciano a Rossini e, nello specifico, ai ruoli buffi?

“Se potessi, vorrei parlare al Paolo di poco più di venti anni fa e sulla scorta dell’esperienza fatta gli direi di non cercare di essere simpatico ad ogni costo. Di non imitare nessuno, ma cercare invece una propria per- sonalità scenica e vocale attraverso la massima attinenza al testo, anche a costo di non piacere a tutti. La re- citazione, soprattutto nel teatro d’opera, non va ricercata allo specchio, non è sul nostro viso che si trovano le giuste espressioni: la recitazione è qualcosa che avviene dentro di noi. Non dobbiamo ostentare un’emozione, ma farla percepire e vivere al pubblico”

paolo bordogna